I Ladri della Patria

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di Sandro Arcais

I Ladri della Patria sono una categoria antropologica che si è sviluppata nella Repubblica italiana nell’immediato dopoguerra, se non in una frazione non marginale della stessa Resistenza. Per averne una certa nozione basta leggere l’ultimo libro di Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro, ma anche i precedenti Colonia Italia e Il Golpe inglese. Si tratta di quella categoria di Italiani che non si sono riconosciuti nei due partiti di massa che sono usciti vincenti dall’immensa fornace dei due ultimi anni di guerra e della lotta per la Liberazione dell’Italia dal Nazismo tedesco e dal Fascismo italinano, la Democrazia Cristiana (Ladri! Corrotti!) e il Partito Comunista (Comunisti!). E che in quella vittoria hanno letto un difetto congenito nella “razza italiana”. Un difetto che andava corretto con ogni mezzo.

I Ladri della Patria vivono in Italia, ma non si sentono Italiani. In genere guardano alla Gran Bretagna come alla loro patria di elezione. Qualche volta agli Stati Uniti, ma sempre attraverso il filtro monarchico inglese. I Ladri della Patria sono liberali e liberisti, idolatri del Mercato, vissuto quale grande strumento pedagogico per raddrizzare con «la durezza del vivere» tutte le storture nostrane. I Ladri della Patria sono intimamente autorazzisti e infaticabili fustigatori di tutti i vizi e le bassezze dell’italiano medio. In questo senso i Grandi Ladri della Patria hanno figliato tanti piccoli ladroncelli della patria. In buona sostanza, degli autoladri.

Il brano che segue ha come protagonisti due giganti di questa categoria antropologica nostrana: Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta (ma soprattutto il secondo). Il brano è tratto da un recente libro, La crisi narrata. Romanzo dei Capitali e crepuscolo della Democrazia, di Il Pedante (vedi anche il suo imperdibile blog). Libro particolare e indispensabile per comprendere com’è che permettiamo a un manipolo di nipotini dei Grandi Ladri della Patria di derubarci del nostro benessere, dei nostri diritti sociali, della sicurezza del lavoro nostro e dei nostri figli, delle nostre industrie, della nostra sovranità, delle nostre menti e di molto altro ancora.

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Uno dei tanti drammi dell’indipendenza delle banche centrali è che a parlarne sono quasi sempre gli economisti, con i criteri e gli strumenti dell’economia. Dovrebbero inceve occuparsene, e con unrgenza, giuristi e magistrati. Forse è anche questo il segreto della sua longevità  e dello scarso interesse che solleva nel pubblico. Per comprendere meglio il caso è d’obbligo la lettura integrale di un editoriale pubblicato sul Sole 24 Ore nel decennale del «divorzio» a firma del suo esecutore materiale, Beniamino Andratta. In quel testo … l’ex ministro ripercorreva orgogliosamente le tappe della

«congiura aperta» tra il ministro e il governatore [che] divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per tornare alle più confortevoli abitudini del passato.

Nell’articolo leggiamo di «demenziale rafforzamento della scala mobile», di «colleghi ossessionati dall’ideologia della crescita ad ogni costo» e della «analoga operazione che contemporaneamente negli Stati Uniti pose termine nel 1951 alla politica di denaro facile, che aveva permesso il finanziamento della seconda guerra mondiale». E poco importa se con quella politica di «denaro facile» gli Stati Uniti sconfissero il nazifascismo e finanziarono il Piano Marshall con cui l’Europa si risollevò, o se nel ’51 si erano già buttati nella costosissima guerra di Corea. Il passaggio più importante l’autore ce lo regala già nell’incipit dove ammonisce che «oggi la “separatezza” [sic] fra i poteri esecutivo, legislativo e monetario è chiamata a test ancor più impegnativi». Scrive proprio così: il potere «monetario». Ora, da dove spunta, il potere «monetario»? Da quali leggi è sancito? In quali articoli della Costituzione lo si cita? Mistero. E come è possibile che un ministro in carica da quattro mesi decida da solo che un organismo alle dipendenze dello Stato non debba più rispondere allo Stato? E che si inventi un potere indipendente, mai esistito? E che soprattutto ci riesca? Attenendosi allo stesso principio, un ministro della Difesa che non condivida la politica estera del suo governo potrebbe accordarsi con il capo di Stato maggiore per creare un «potere militare» indipendente dagli organi sovrani, che agisca in «separatezza» dal potere legislativo ed esecutivo e che, al pari dei mercati e dei banchieri qui descritti, minacci impunito «conseguenze devastanti» per i governi che non legiferano secondo il suo gusto. Sarebbe normale?

Nella realtà Beniamino Andreatta non sarà ricordato come un discepolo rivoluzionario di Montesquieau, nè il potere «monetario» che egli cita esiste davvero. Se consegnato nelle mani di agenzie private, diventa il pretesto per conseguire poteri ben più appetibili e reali, una scusa per dettare decisioni ai governi senza governare e per dipingere interessi particolari come regole universali. Ben lontani dal risolvere i problemi dell’approvvigionamento e della distribuzione monetaria, i «mercati» utilizzeranno quel potere per perseguire il loro interesse dettando agli Stati «riforme» che deflazionino il lavoro per renderlo più precario e meno remunerato, trasformino in prodotti finanziari e assicurativi ciò che la previdenza pubblica garantiva senza spesa, impongano l’adozione di strumenti bancari anche dove non servono, più facilitazioni nei pignoramenti, il congelamento delle riserve pubbliche nei caveau delle banche e, in breve, tutto ciò che possa accrescere e mettere in sicurezza il loro vantaggio. Sicché il cosiddetto potere «monetario» non è che plutocrazia, ricchezza strumentale al potere. È potere legislativo senza mandato. La sua ascesa ebbe inizio da lì, da quelle idee se non da quei fatti, e da chi non li ha voluti fermare.

 

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