di Sandro Arcais
la Repubblica delle Banane del 21 agosto, quarta pagina:
«La diagnosi sulla tenuta del calcestruzzo e dei tiranti del viadotto Morandi fatta da Autostrade potrebbe essere stata gravemente sbagliata, nonostante i molteplici avvisi»
Insomma, Autostrade era ampiamente consapevole del pericolo e della possibilità, ma non è intervenuta. L’articolo è obbiettivo, ben informato, basato su dati oggettivi e verificabili. Terminando la sua lettura uno ne esce sempre più convinto delle responsabilità di Autostrade nell’aver non solo sottostimato la gravità del deterioramento del ponte Morandi, ma anche della sua volontà di non dico nascondere, ma almeno ottenere “risposte” che le avessero consentito di rimandare i lavori. Un’altra cosa che viene a sapere il lettore è che
il Mit era informato di tutto ma, a leggere i disciplinari interni …, sembra che i compiti di sorveglianza sui lavori effettuati da Autostrade si limitassero a capitoli secondari come illuminazione e sfalcio del verde.
Segnatevelo, perché ci servirà.
Un ottimo articolo che per un attimo mi ha fatto pensare che la Repubblica delle Banane davanti alla gravità della tragedia di Genova si fosse ricordata improvvisamente che il suo dovere è quello di informare. Ma mi sbagliavo.
In sesta pagina ecco che RdB entra nel merito della sua vera preoccupazione: la rinascente prospettiva della nazionalizzazione. La questione è affrontata prima di tutto presentando le divisioni interne alla maggioranza sulla questione:
Sempre a pagina sei la questione è ripresa in un’intervista ad Andrea Tomat, «l’imprenditore di Montebelluna che ha rilanciato la Lotto e ha creato dal nulla la Stonefly, [e che] non ha mai nascosto le sue simpatie per la Lega»
Il primo passo è quindi quello di dividere la maggioranza tra una parte che sta con il mondo delle imprese (la Lega), che pensa a «una gestione privata sotto la vigilanza attenta dello stato e con regole certe» (Giorgetti) e a «definire una legislazione più attenta, mettere in campo controlli più accurati e interventi migliori» (Tomat), e una parte (il Movimento 5 Stelle) che invece spinge con più energia verso la nazionalizzazione (e la «ghigliottina»). Naturalmente dando spazio solo alle ragioni e argomentazioni dei primi.
Ma la preoccupazione per la rinascita della prospettiva delle nazionalizzazioni all’interno del grande capitale italiano dev’essere tanta, e infatti la questione è ripresa non una
non due
ma per ben tre volte
Ciò che lega i tre articoli è una idea fondamentale: lo stato imprenditore ha sprecato le risorse e così facendo ha creato il debito pubblico . Nel primo articolo, tra le altre cose, viene suggerito che la nazionalizzazione di Autostrade è impossibile a causa del debito pubblico (e delle regole europee), perché lo Stato dovrebbe pagare 20 miliardi di penalità per la revoca anticipata del contratto con Autostrade e far fronte in qualche modo al fallimento certo della società Atlantia indebitata per 39 miliardi (un tempo c’era la moneta sovrana e l’Iri che rendevano fattibili queste cose). Nel secondo articolo l’idea di fondo è che il debito pubblico è il frutto della gestione corrota e degli sprechi del sistema economico delle partecipazioni statali che
aveva cominciato ad ammalarsi e poi a morire da metà degli anni Sessanta. Un’agonia costata decine di migliaia di miliardi delle vecchie lire in debito pubblico, un fardello che pesa ancora oggi nelle tasche degli italiani.
Nel terzo si chiude con esattezza millimetrica il cerchio del racconto e si afferma che il debito pubblico ha reso necessarie le privatizzazioni:
La favola del quinto paese più sviluppato al mondo si interrompe bruscamente quando il debito diventa insostenibile, la lira affonda sui mercati, si accendono i riflettori su una corruzione dilagante che decapita la classe imprenditoriale pubblica, spesso emanazione diretta dei partiti. E l’Italia, in parte per convinzione in parte per necessità, deve mettere sul mercato le sue aziende: serve denaro alle casse prosciugate, serve ritrovare la credibilità perduta in Europa scardinando un sistema fatto di monopoli e protezioni.
Riducendo all’osso, quello che deve rimanere nella testa del lettore è che
- le partecipazioni statali hanno causato il debito pubblico;
- il debito pubblico ha reso necessarie le privatizzazioni;
- il ritorno alle nazionalizzazioni è impossibile a causa del debito pubblico.
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Riassumiamo ora più distesamente la favoletta raccontata da RdB:
«C’era una volta lo Stato padrone» che sino alla metà degli anni Sessanta mette su un esperimento di economia mista che rimette «miracolosamente in piedi l’Italia del dopoguerra». Lo Stato «manda avanti le aziende sotto l’ala dei tre grandi enti di controllo (Iri, Eni, Efim) e la compartecipazione degli imprenditori privati nelle società operative». L’espansione è «inarrestabile … frutto della grande energia con la quale l’Italia uscita dal Dopoguerra si era gettata nella ricostruzione di un paese distrutto nelle sue fondamenta industriali». Lo Stato soffiava «nelle vele dell’imprenditoria, facendo diventare pubblica anche quella che traballava dal punto di vista economico».
A questa «età dell’innocenza delle Partecipazioni statali» sono subito sopraggiunti «decenni di inefficienze, sperperi e corruzione, l’era dei Boiardi», anni in cui poteva accadere che (oh!, quale orrore!) «L’Iri, per dire, ogni anno riceveva una media di 5000 miliardi di lire dallo Stato per pagare lo stipendio a quasi mezzo milione di lavoratori», o che «Iri, Eni o Efim (feudi incontrastati di DC, PSI e degli altri partiti di governo)» rilevassero «business ormai in perdita» diventando così «la discarica delle aziende private in crisi». E tutto questo per cosa? Per «un ritorno in termini di voti garantito dal salvataggio di migliaia di posti di lavoro».
Ma la cuccagna non poteva durare. Gli Italiani non potevano continuare a vivere al di sopra delle loro possibilità per troppo tempo, lo Stato non poteva permettersi di continuare a «pagare lo stipendio a quasi mezzo milione di lavoratori» e accollarsi «business … in perdita». Come un padre di famiglia scioperato e sconsiderato, la classe dirigente della prima repubblica aveva rubato e distribuito lavoro, dilapidando così un patrimonio e indebitando gli Italiani per generazioni: i padri lasciavano in eredità ai figli solo la cinghia con cui stringere di più i pantaloni in vita. Infatti, puntuale come l’inverno dopo l’estate dei canti e degli amori, per le cicale italiane arriva l’inverno del pentimento, dei sacrifici e della durezza del vivere. E l’inverno ha la faccia severa ma giusta delle formiche nord-europee che «in una riunione [dell’estate del 1992] sulla siderurgia» mettono «all’angolo» l’allora impotente capo del governo delle ingovernabili cicale italiane e gli dicono chiaro e tondo: «basta con il sistema delle Partecipazioni statali, troppo comodo fare la concorrenza alle altre industrie europee con il paracadute degli aiuti pubblici»! E così il nostro impotente capo del governo delle ingovernabili cicale italiane torna a casa pieno dell’energia che gli dà l’umiliazione appena subita, convoca in quattro e quattr’otto i ministri dell’industria e del tesoro e insieme a un manipolo di giuristi decreta «la fine dello Stato padrone» e l’inizio della salutare stagione delle privatizzazioni». Ce lo chiedeva l’Europa.
E ora siamo qui, con un debito che si ostina a non voler scendere, con quel dispettoso denominatore che (oh rabbia!) puntualmente diminuisce in maniera direttamente proporzionale al numeratore che i solerti governanti-scolaretti della seconda repubblica continuano a diminuire con tagli, tasse, tributi e aumenti dell’iva, carburanti e sigarette, e con quegli Italiani che si ostinano a non volersi mai pienamente sottomettere a quella durezza del vivere che l’Europa cerca da anni di insegnarci con pazienza e fermezza e qualche volta con faccia truce.
Ma per fortuna che ci sono i mercati e le loro agenzie di rating …
… che come un maestro severo e minaccioso, ma in fondo giusto, data la testardaggine e l’infingardaggine dell’alunno, mette in guardia gli Italiani con la minaccia della bocciattura e di «spedire il Belpaese ad un passo dall’inferno, con i titoli del debito quasi spazzatura». Con fare severo e accigliato l’agenzia di rating «punta il dito contro i “rischi significativi” per l’Italia di deragliare dal percorso di risanamento finanziario e delle riforme strutturali» e avvisa che «tra settembre e ottobre valuteremo». «Paese avvisato» mezzo salvato.
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Ora, questa favola, attorno a cui è costruito la Repubblica delle Banane del 21 agosto, un qualsiasi lettore se la può bere se in testa gli frulla questa idea e convinzione: il debito pubblico è un problema. Ma siccome nell’universo neoliberista dominato dal grande capitale finanziario e monopolistico in cui viviamo in effetti il debito pubblico è un problema, il lettore qualsiasi deve accettare questa realtà come l’unica possibile ed essere anche convinto che
1) lo stato non deve controllare la moneta e la sua emissione, bensì
2) la moneta deve essere controllata da una banca indipendente (dalla grande finanza, insomma) e quindi
3) lo stato deve puntare al pareggio di bilancio (meglio se all’avanzo), e se proprio deve indebitarsi
4) lo deve fare con le grandi banche private, e questo perché
5) il mercato sa dove allocare con più profitto le risorse mentre
6) lo stato le sprecherebbe in impieghi improduttivi
7) sottraendole ai privati, perché
8) le risorse sono sempre date e scarse.
Il lettore deve anche essere convinto che
9) il debitore è colpevole, mentre il creditore è una vittima ingenua della furbizia e malizia del primo, e come tale
10) il creditore deve essere sempre risarcito e non deve mai pagare il fallimento di una sua operazione sbagliata
11) la stabilità dei prezzi val bene un’alta disoccupazione
Infine, il lettore qualsiasi del suddetto organo del grande capitale finanziario nazionale e internazionale e delle multinazionali per bersi tranquillamente la favola dell’edizione del 21 agosto dovrebbe anche essere convinto che
12) il debito pubblico italiano è stato causato dalla eccessiva spesa pubblica,
13) gli italiani sono un popolo ingovernabile, e infine che
14) tutti i mondiali vinti dalla nazionale italiana con la tattica del catenaccio e contropiede siano da annullare insieme alla tattica stessa.
E altre cose ancora. Ma il mio intento non è l’esaustività, bensì convincervi di due cose:
la prima è che gli organi di informazione non sono tali, bensì il loro scopo è quello di manipolare le menti dei lettori in modo nascosto e sottile;
la seconda è che quando una serie di idee hanno come conseguenza l’aumento della povertà, della precarietà, della disuguaglianza, la perdità di una pur minima possibilità di autodeterminazione, allora sarebbe necessario cominciare a passare al vaglio quelle idee e sostituirle con idee che puntino al benessere dei cittadini.
E per oggi è tutto.