di Giacinto Mascia
Con la dissoluzione dell’Urss nel 1989-1991 l’Europa occidentale si ritrovò nelle condizioni geopolitiche consone alle realizzazione una formula politico-economico che aveva radici lontane: tra il 1992-1993 si disponeva il passaggio dalla Comunità Economica Europea alla Unione Europea sancito definitivamente col trattato di Maastricht. Tuttavia si trattò, e si tratta tuttora, di una costruzione meramente economica, complice la politica che suggellò così il suo lungo arretramento e infine suicidio dinanzi alla egemonia bancaria e che vide la creazione di una particolare architettura economica europea, l’euro, un sistema di cambi fissi, insieme con un ente sovranazionale ed indipendente dal controllo politico degli stati membri, la Banca Centrale Europea, BCE, regno incontrastato delle politiche monetarie europee. Con questa modalità l’intera eurozona nasceva con un «difetto congenito», per usare le parole dell’economista Stiglitz poiché, diversamente dalla Fed statunitense che nel suo mandato prevede interventi in materia di disoccupazione, crescita e stabilità, la BCE non ha per statuto questi poteri, restando concentrata sull’inflazione. La BCE non si occupa della promozione dell’occupazione, non si occupa di promuovere la crescita e non opera come prestatore di ultima istanza (lender of last resort). L’assenza di questi due fondamentali strumenti per la gestione di una vasta area sotto una unica valuta, non fu un errore di valutazione (altrimenti sarebbero da ritenersi sommamente incompetenti coloro che crearono le strutture economiche), ma fu un atto deliberato.
Pertanto l’UE appena costituita si indirizzava su sentieri favorevoli agli interessi finanziari dominanti, in altri termini a favore delle banche e del grande capitale. In altri termini, secondo l’economista canadese Michel Chossudovsky con riferimento all’UE «in questo sistema il potere statale ha deliberatamente sancito l’avanzata dei monopoli privati: il grande capitale distrugge il piccolo capitale in tutte le sue forme. Con la spinta alla formazione di grandi blocchi economici in Europa e Nord America, si sradica l’imprenditoria regionale e locale, cambia la vita nelle città e la piccola proprietà privata viene eliminata». Le analisi dell’autore nel suo lavoro dal titolo eloquente «Globalizzazione della povertà e Nuovo Ordine Mondiale» rappresentano una disamina precisa delle politiche economiche imposte nel mondo dal paradigma neoliberista a trazione occidentale. Gli alfieri del neoliberismo sono la Banca Mondiale (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo) e principalmente il Fondo Monetario Internazionale (FMI), utilizzato come arma tattico-strategica per imporre le riforme economiche ispirate dalla teologia neoliberista più sfrenata senza nessuna considerazione del tessuto socio-economico dei paesi in cui esso opera.
All’interno dell’UE queste avanguardie del fondamentalismo di mercato non hanno (talvolta) bisogno di intervenire dal momento che l’accumulazione del debito pubblico dei paesi membri fornisce alle élite finanziarie un enorme potere politico che si manifesta con ordini diretti ai governi in termini di politiche economico-sociali. L’infelice connubio tra ideologia economica neoliberista e assenza di solidarietà politica si sta rivelando un micidiale strumento di impoverimento delle popolazioni europee, a causa di classi dirigenti palesemente schierate a difesa dell’iniquo meccanismo di progressiva terzomondizzazione europea che attua un trasferimento di ricchezze tra il Nord e il Sud Europa a beneficio del primo e detrimento del secondo.
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I governi nazionali recalcitranti agli imperativi delle dinamiche finanziarie-economiche sintetizzabili nei parametri monetari di Maastricht vengono rapidamente richiamati all’ordine o semplicemente sostituiti. Nel caso italiano, dopo il colpo di stato da spread del 2011 che inflisse all’Italia la cura economica di Mario Monti, si susseguirono due governi Letta e Renzi del tutto avulsi dalle reali condizioni sociali del paese e profondamente interessati all’obbedienza delle regole dettate da Bruxelles. Per usare le parole dell’economista professor Savona
i tre governi post-berlusconiani hanno operato sotto l’ala protettrice del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e hanno ricercato – e di volta in volta ottenuto – la benedizione dell’Unione Europea, che persegue il solo obiettivo di piegare gli italiani, che vengono considerati spendaccioni e disordinati, all’ordine europeo imposto dalla riedizione in chiave pacifista del disegno tedesco del Piano Funk, il ministro dell’economia nazista…in estrema sintesi, il Piano Funk prevedeva che la Germania divenisse il Paese d’ordine dell’Europa…che solo i tedeschi sanno fare industria ed è quindi giusto che siano essi a prevalere nel settore…che gli altri Paesi si devono dedicare all’agricoltura (e al turismo), così l’Europa può vivere bene; che le monete nazionali dovessero seguire la logica della gestione monetaria tedesca. (P. SAVONA, J’accuse. Il dramma italiano di un’ennesima occasione perduta, 2015, pp. 8 sgg.)
Dopo anni di governi non eletti, ma nominati – un vulnus delle regole democratiche che tuttavia non ha generato manifestazioni nei difensori della democrazia da esportare – nel 2018 le elezioni italiane hanno infine creato le premesse per un governo di coalizione Lega-Movimento 5 stelle che ha avuto l’ardire di proporre come ministro dell’economia proprio Paolo Savona, ritenuto un oppositore del sistema euro, tale che il presidente della Repubblica redarguì le nuove forze governative con un discorso «Urbi et Orbi» in difesa dei mercati e non proprio del popolo italiano, non senza aver tentato una improbabile soluzione estrema con l’economista Carlo Cottarelli (ex commissario alla spending review).
Il solo nome di Savona generò paure e reazioni scomposte, in quanto era ritenuto un fautore dell’uscita italiana dall’euro, un eretico da evitare e combattere. In realtà le sue proposte, se attuate, possono fornire un’alternativa all’abbraccio mortale della cosiddetta austerità. Dapprima Savona ricorda che nel trattato di Lisbona – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea del 2007 – all’art. 2 sono scolpiti alcuni elevati principi, dalla promozione del benessere dei popoli europei, alle misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima. Ancora, l’art. 2 recita che l’Unione «si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale…l’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali». Assodato che simili accordi non sono rispettati dall’UE, continua Savona, è il momento di chiedere il rispetto dei patti piuttosto che «farci mettere sotto accusa perché non rispettiamo la loro errata applicazione».
Le proposte di Savona, peraltro all’interno dell’impianto UE, per invertire le attuali politiche economiche si basano su tre temi: 1) sostenere le costruzioni, e non solo le esportazioni; 2) affrontare seriamente il divario Nord-Sud italiano; 3) abbandono stimolo all’economia interna, ma abbandonando il modello export-led insieme con una proposta di ristrutturazione del debito (che non consideriamo per il momento). Dai grafici (2008=100) le tre categorie di PIL, Esportazioni e Costruzioni mostrano un diverso andamento delle economie dei tre paesi analizzati (Italia, Germania e Stati Uniti). Il problema italiano, ci spiega Savona, consiste nell’aver potenziato le esportazioni senza aver riacceso il polmone delle costruzioni, poiché le prime da sole non possono imprimere la crescita del PIL senza le seconde. Nel caso tedesco si osserva che dopo la crisi del 2008, i due settori costruzioni-esportazioni sono stati rilanciati immediatamente, mentre negli Stati Uniti «il collegamento diretto tra edilizia e quantitative easing ha funzionato».
In Italia la mancata accensione del motore delle costruzioni è dovuta all’asservimento alle politiche europee del tutto improntate al modello export-led, oltre a motivazioni ideologiche verso il settore (insieme con una dose di ignoranza dovuta ai «governanti improvvisati»).
In sintesi il ministro per gli Affari Europei Savona sostiene che senza una politica di costruzioni non sarà possibile avviare una crescita in grado di riassorbire la disoccupazione, in quanto il modello export-led tanto caro alla UE e sollecitato da Confindustria per rilanciare la competitività non è sufficiente. A questi fattori si deve aggiungere che la differenza Nord-Sud Italia presenta gravi problematiche strutturali inerenti la produttività e senza individuare un rimedio l’intero quadro nazionale ne resterà inficiato. Il ministro ritiene necessario rilanciare gli investimenti insieme con il rilancio dei consumi «azionando le leve esogene dello sviluppo, ad esempio detassando», diversamente gli esiti saranno negativi. Il problema dell’Italia non è tanto la crescita – sostiene Savona – quanto le opposte prospettive di crescita esistenti oggi tra il Centro-Nord (positive) e il Sud (negative): dall’inizio della crisi del 2007 il Centro-Nord ha perduto 8-9 punti percentuali, ma il Sud ne ha perduti 12-13. In buona sostanza, la sola crescita del Centro-Nord non potrà sopperire alla non-crescita del Sud.
Nel terzo caso il professore stigmatizza fortemente le politiche di austerità fiscale dispiegate da Monti e dai successivi governi. L’incremento dell’imposizione fiscale, che alimenta deflazione e disoccupazione, continua a mantenere il paese nella spirale negativa che potrebbe essere invertita da una politica economica diametralmente opposta e basata su incentivi alla domanda interna. L’Italia presentava (dati 2015) un avanzo di parte corrente della sua bilancia estera – 45 miliardi di euro – un eccesso di risparmio che se impiegato all’interno del paese avrebbe potuto consentire una crescita tale da ripristinare la ripresa dell’occupazione.
In altri termini, anziché puntare sulle cosiddette riforme per migliorare la competitività delle esportazioni italiane, è necessario trasformare l’eccesso di risparmio in domanda interna tramite investimenti oppure sul fronte dei consumi.
Queste soluzioni non propriamente bolsceviche, non sono minimamente considerate dalla teocrazia neoliberista, indubbiamente per motivi puramente ideologici e nel caso europeo funzionali alla Germania. Il sistema di cambi fissi non consente ai paesi membri dell’Eurozona di svalutare come accadeva in passato con le valute nazionali e ciò si rivela un vantaggio ad usum Germaniae, in quanto nessuna politica monetaria «nazionale» è consentita, divieto che garantisce il mantenimento del surplus commerciale tedesco e della sua Europäische Politik. Antico desiderio teutonico che si cominciò a delineare quando nel 1971 gli Stati Uniti abbandonarono il sistema economico-finanziario creato a Bretton Woods nel 1944. Le azioni aggressive della Germania, della Francia e della Gran Bretagna tra il 1968-1971, portarono Nixon ad annunciare il 15 agosto 1971 la fine della convertibilità dollaro-oro, decisione che sancì sostanzialmente la formazione di meccanismi economici diversi fra europei e statunitensi. Da quel momento la Germania, tallonata dalla Francia cercò di dotare l’Europa di un suo modello economico che passando dal cosiddetto “Serpente monetario europeo” (1972) fino allo “Sistema Monetario Europeo (SME 1978-1992) giunse all’attuale e più perfezionato – per la Germania – sistema euro. Minimo comune denominatore dei vari sistemi era sempre l’idea di agganciare al marco le altre valute e con l’euro, vista l’impossibilità di svalutare da parte dei paesi membri, si è raggiunto lo scopo di dominio politico-economico germanico dell’Europa.
L’Italia, ma non solo, deve esigere una riforma dell’UE ed una riformulazione del ruolo della BCE, oppure considerare la possibilità di un abbandono unilaterale del sistema attuale, seguito dal ripristino della sovranità economica (insieme con una serie di idonee misure cautelative), nonostante i guardiani del leviatano economico europeo sostengano il contrario tramite consueta propaganda dai toni apocalittici sul dopo-euro.
Non solo è necessaria oggi una valutazione seria e accurata delle dinamiche post-euro, ma anche una concreta riformulazione degli equilibri Stato-privato, ovvero una decisa opera di revisione degli attuali paradigmi economici a favore del primo. Sono decenni che si assiste alla santificazione aprioristica del libero mercato, del neoliberismo, in antitesi alla inadeguatezza dello Stato, ma si tratta di una operazione falsa e di legittimazione in negativo, dal momento che si parte dal presupposto che lo Stato sia inefficiente al contrario dell’infallibile mercato senza regole. In altri termini, si sostiene la validità del mercato e del privato, in quanto ritenuti più efficienti e funzionali dello Stato, proprio perché quest’ultimo non lo è, traendo i primi credibilità e sostegno dalle incapacità del secondo. Asserzioni ampiamente eccepibili, ma purtroppo diventate un diffuso idem sentire, sebbene le capacità taumaturgiche e positive dei mercati e dei privati non siano minimamente dimostrate, anzi abbiamo assistito e oggi assistiamo quotidianamente alla logica delle privatizzazioni indiscriminate su settori fondamentali dello Stato con effetti visibilmente chiaramente negativi per la società (si pensi alla Grecia, oppure alla recente tragedia di Genova).
Inoltre le forze economiche collegate ai mercati hanno spesso beneficiato del sostanzioso aiuto del tanto vituperato Stato, intervenuto a sanare le loro disastrose operazioni finanziare causa di tragedie per milioni di persone. È il momento di ripristinare il primato della politica sull’economia, è necessario un cambio di paradigma che ribalti gli attuali assetti finanziari europei e respinga con forza la religione laica del neoliberismo e di tutte le sue categorie, dal debito all’austerità, e fermare questa deriva di atomizzazione della società tramite l’arma economica, conseguenza deleteria della globalizzazione finanziaria trionfante.