di Sandro Arcais
Il sasso nello stagno della favoletta economica raccontata a ripetizione dai giornaloni e dalle tv italiani del “debito pubblico brutto”, del “pareggio di bilancio bello”, dello “stato corrotto e spendaccione”, del “mercato efficiente”, ecc., è stato un breve servizio andato in onda nella prima puntata del 25 gennaio di Povera Patria che spiegava cos’è il signoraggio bancario e che differenza c’è se lo detiene lo stato o lo detiene una banca centrale che non risponde ai voleri (e scopi) dello stato.
Secondo la Repubblica delle Banane i social sono entrati sul piede di guerra e si sono rivoltati. A capo della rivolta si è posto messer Cottarelli Carlo, Gran Campione degli Economisti Erranti, che dall’alto dello scranno di direttore dell’Osservatorio dei Conti Pubblici Italiani occhieggia con occhio di falco l’andamento del nostro debito pubblico e presiede ai misteri gloriosi che vengono periodicamente celebrati in onore del pareggio di bilancio nelle catacombe dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ma del messer Cottaro, più tardi.
Secondo Flavio Bini, l’autore dell’articolo de la Repubblica delle Banane sopra citato, l’errore principale del servizio di Povera Patria sul signoraggio è una omissione:
L’errore più clamoroso dell’intero servizio sta nel non citare mai in alcun passaggio il tema dell’inflazione. Nella prima fase, quando cioè la Banca d’Italia poteva “stampare moneta” liberamente, per ripianare disavanzi pubblici causati da un eccesso di spesa rispetto alle entrate, l’effetto è stato quello di aumentare l’inflazione. È aumentata cioè la massa monetaria in circolazione e con essa sono aumentati i prezzi, con l’effetto di ridurre il potere di acquisto delle famiglie. Nel 1981 quando venne deciso il “divorzio” sopra citato, l’inflazione (già alta a livello mondiale) viaggiava intorno al 18%. È scorretto dunque ripercorrere i benefici della prima fase, la possibilità di avere una sorta di salvadanaio illimitato e basso costo per finanziare la spesa, senza considerare le conseguenze negative.
E presenta un grafico, questo:
Ora, l’osservazione di Flavio Bini è sensata se fossero vere le seguenti tre affermazioni:
1. in un sistema economico l’inflazione dipende dalla quantità di moneta in circolazione,
che è vera, se è vera anche la 2:
2. un sistema economico lasciato ai meccanismi autoregolatori del mercato è sempre in piena occupazione (e quindi produzione).
La terza affermazione è la seguente:
3. l’inflazione alta pesa prima di tutto sui lavoratori (“la più iniqua delle tasse” di einaudiana memoria).
A una normalissima e comunissima persona di buon senso basterebbe un attimo per capire che l’affermazione 1 non regge perché non regge la 2. Infatti, noi viviamo nella terrena incarnazione della metafisica idea liberista della libera competizione in un mercato autoregolato (da migliaia di regole decise dall’Ue), eppure abbiamo una disoccupazione a due cifre, tanta precarietà e povertà in ascesa. Ma i neoliberisti, soprattutto se giovani rampolli freschi delle sfacoltà economiche delle università della seconda repubblica, nonché temprati da un internship presso Radio 24 e stage presso la redazione economica de la Repubblica delle Banane, e infine dall’esperienza sul campo nella redazione economica del Corriere della Serva prima e de la Repubblica delle Banane attualmente, non sono normalissime e comunissime persone di buon senso. Per loro, infatti, noi SIAMO in piena occupazione. Infatti, come spiegava Carlo Clericetti in un articolo di qualche mese fa, secondo loro (ovvero quel particolare prodotto della selezione artificiale portata avanti nei grandi (si fa per dire) centri di formazione italiani e mondiali e nelle grandi (si fa ancora per dire) corazzate dell’informazione italiana controllati direttamente o indirettamente dalla grande finanza, prodotto di cui il giovane Flavio Bini è un fulgido e, sono sicuro, inconsapevole esempio) secondo loro, dicevo, la piena occupazione
è considerata tale quando ci sono abbastanza disoccupati da dissuadere chi ha la fortuna di lavorare dal chiedere aumenti retributivi. In sigla il famigerato NAWRU (non accelerating wage rate of unemployment, tasso di disoccupazione che non spinge i salari ad aumentare)
Ora, quale percentuale di quel 57% di italiani che si sentono ancora al sicuro all’interno dell’euro sa che per Flavio Bini, messer Cottaro, i mastini della commissione della Ue e i neoliberisti tutti la piena occupazione può benissimo prevedere il 10 o più per cento di disoccupazione e che il lavoro e il benessere mentale e fisico del 10 e più per cento degli Italiani in età lavorativa (e dei loro figli, se hanno avuto la dose di ottimismo o di disattenzione sufficiente a metterli al mondo) è da loro consapevolmente sacrificato sull’altare dell’idolo della bassa inflazione? Non so cosa penserebbe quel 57% di italiani, ma so con certezza cosa stanno facendo gli eurumani: stanno apprestando una doppia linea di difesa: la prima linea di difesa è rappresentata dall’affermazione 1 (in un sistema economico l’inflazione dipende dalla quantità di moneta in circolazione) e, se questa dovesse dare segnali di cedimento (come sta cominciando a dare), è pronta la seconda linea rappresentata dall’affermazione 3 (l’inflazione alta pesa prima di tutto sui lavoratori).
L’affermazione 1, infatti, è debole: lo sanno anche loro che l’inflazione non dipende dalla quantità di moneta, ma dal livello di occupazione e quindi dalla forza contrattuale dei lavoratori. Infatti, come può un’immissione di moneta in un sistema economico che ha il 10 e più per cento di forza lavoro inutilizzata generare inflazione? La genererebbe solo se ci si trovasse in uno stato di piena occupazione (ma quella vera, non quella finta dei neoliberisti della commissione). La verità è che, come spiegano bene quelli del collettivo di economisti Coniare Rivolta,
Lungi dal derivare dalla immissione di moneta nel sistema, l’inflazione è anch’essa frutto della contrapposizione tra capitale e lavoro. Se l’imprenditore vede aumentare i salari della propria forza lavoro, esso vorrà aumentare i prezzi dei prodotti venduti, al fine di mantenere elevati i propri profitti. Di converso, alti prezzi dei prodotti acquistati spingeranno i lavoratori a richiedere aumenti dei salari, in modo da poter mantenere inalterato il proprio tenore di vita. Ma salari più alti comprimeranno i profitti, e così via. Una bassa inflazione è quindi collegabile a una lotta di classe che si affievolisce, e questo è il vero elemento da tenere in conto. Per questo motivo l’inflazione, in un sistema economico capitalistico, non è certo un indice di una gestione dissennata delle finanze pubbliche, ma lo specchio di una dinamica conflittuale nel processo di distribuzione del reddito tra le classi sociali. (vedi qui)
Se dunque la linea rappresentata dall’affermazione 1 (in un sistema economico l’inflazione dipende dalla quantità di moneta in circolazione) si rivela debole e indifendibile, per i neoliberisti eurumani non rimane da fare altro che attestarsi sulla linea più arretrata rappresentata dall’affermazione 3 (l’inflazione alta pesa prima di tutto sui lavoratori). Ma è proprio così? È proprio vero che l’inflazione la pagano prima di tutto i lavoratori? Vediamo.
Prima di tutto allarghiamo la visuale sul fenomeno della fiammata inflazionistica degli anni Settanta con un grafico pubblicato su Scenari Economici di pochi giorni fa:
È chiaro che il fenomeno fu mondiale, sistemico, e non legato a dinamiche nazionali. La monetizzazione del debito non c’entrava un fico secco. La vera ragione ce la suggerisce un altro grafico, sempre tratto dal recente post di Scenari Economici:
e ce la spiega esplicitamente l’autore di thomasmuntzerblog in un articolo di un anno fa:
La ragione principale di questo improvviso e prolungato aumento dei prezzi al consumo però non fu la fantomatica svalutazione competitiva della liretta ma l’aumento del prezzo delle materie prime, petrolio in primis, prima nel 1973, poi di nuovo nel 1979. I paesi produttori di petrolio iniziarono a domandare una fetta più grande dei profitti del mondo occidentale e questo si tradusse in un brusco aumento dei prezzi.
Ma a prescindere dalle cause, è proprio vero che l’inflazione sia la peggio tassa sui lavoratori? E’ proprio vero che negli anni Settanta dell’inflazione a due cifre i lavoratori stavano peggio di oggi in cui abbiamo un’inflazione all’1%? Mah… se stiamo ai fatti non si direbbe. Infatti,
i salari crescevano più dell’inflazione (e quindi i salari reali, quelli che contano veramente, crescevano)

e neanche i risparmiatori se la passavano male (forse perché lavoratori e risparmiatori hanno la strana abitudine di coincidere?)

Sembra quindi che anche la seconda linea non sia poi così sicura. Ecco allora il messer Cottaro, Gran Maestro della Mistica Economica dell’Equilibrio dei Conti Pubblici del Sacro Cuore di Gesù, apprestare una terza linea in cui attestare le truppe in arretramento del credo economico neoliberista, terza linea rappresentata da una nuova affermazione, l’affermazione numero 4:
4. stampare soldi non crea ricchezza, non aumenta la dimensione della torta (vedi qui)
che però, anche lei, ha la fastidiosa caratteristica di dipendere dall’affermazione 2 (un sistema economico lasciato ai meccanismi autoregolatori del mercato è sempre in piena occupazione e quindi produzione). Infatti, se non si fosse in piena occupazione, stampare soldi (non prenderli in prestito dalle banche, eh, proprio stampare dal nulla, al solo costo di carta e tipografia) si tradurrebbe nell’aumento della dimensione della torta (infatti 100 pasticcieri producono più torta rispetto a 90). E però, ALT! la diminuzione della disoccupazione ringalluzzirebbe troppo i lavoratori che comincerebbero a chiedere aumenti salariali, creando inflazione, rendendo la moneta instabile e quindi incerti i profitti delle grandi multinazionali e dei grandi creditori internazionali che sulla stabilità monetaria a livello internazionale hanno fondato il loro dominio. E quindi si torna da capo all’affermazione 3 sull’inflazione-la più iniqua delle tasse, che però si sta già dimostrando debole. E allora, miei prodi bocconiani, tutti nuovamente a difendere la terza linea, che però non è poi tanto difendibile, tanto che monsignor Cottaro, gran Cavaliere del Misterico Equilibrio del Bilancio, si fa sfuggire nello stesso post su Facebook
se l’economia è lontana dalla piena occupazione, se cioè c’è disoccupazione, stampare soldi può servire a far ripartire l’economia cioè ad aumentare [la torta] a disposizione. Ma questo avviene solo fino al raggiungimento della piena occupazione.
Capito la confusione?
Concludo questo post con una storiellina tratta dal volume di Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia:
L’ebreo endogeno e la moneta parallela. Sembra che Kalecki raccontasse la storiella di un suo collega chiamato negli anni Trenta da un potente militare, membro della giunta che governava la Polonia, a spiegargli come funzionasse l’economia: “In un poverissimo paesino – narrò il collega – i cui abitanti tiravano a stento avanti, un giorno arriva un ricco ebreo che si rivolge alla locanda offrendosi di pagare l’alloggio anticipatamente e lasciando in custodia al’albergatore una banconota da 100 dollari. l’ebreo se ne parte però inaspettatamente la mattina successiva all’alba, lasciando la banconota all’albergatore. Attesi un po’ di giorni, l’albergatore conclude che il ricco ebreo non avrebbe fatto ritorno, e decide di utilizzare la banconota per riempire un po’ la dispensa della locanda rivolgendosi al locale emporio. il titolare dell’emporio consegna la banconota alla moglie per custodirla. La donna ne approfitta però per ordinare un abito alla sarta la quale, a sua volta, riesce così a pagare l’affitto. Il padrone di casa ne approfitta per pagare i favori della bocca di rosa locale, la quale presta i suoi servizi nella locanda presso cui affitta una stanza. La banconota così torna all’albergatore. Tutti nel paesino sono più felici. Nel frattempo, il ricco ebreo fa ritorno e l’albergatore, tirando un sospiro di sollievo, gli rende la banconota. l’ebreo la prende e, davanti al costernato locandiere, ci si accende un sigaro. Tanto era falsa – spiegò.”