Sul regionalismo differenziato abbiamo espresso tutto il nostro dissenso e preoccupazione con un comunicato di alcuni giorni fa. Con questo post intendiamo cominciare ad annodare il presente al passato prossimo in cui sono stati posti i semi della mala pianta con cui oggi abbiamo a che fare.
di Sandro Arcais
Sono ormai quasi 20 anni che gli Italiani, senza nemmeno accorgersene, sono ostaggi delle disposizioni del Titolo V della Carta costituzionale, immesse nel nostro sistema dal Governo D’Alema nell’anno 2001. Oggi sono in molti a prendere le distanze da quel “combinato disposto”, ma nessuno ha il coraggio di ammettere che il disordine istituzionale, amministrativo e giurisdizionale che quelle norme provocano fanno sì male al nostro Paese, ma sono tuttavia l’ideale situazione in cui prosperano gli amanti delle deroghe, delle situazioni particolari, delle nicchie protette, del “not in my backyard“. Il titolo V, così come ce lo ritroviamo, è un coacervo disordinato di disposizioni che rinchiude come in un condominio rissoso lo Stato persona, le Regioni, le Province e i Comuni, senza che sia stabilito un principio e un ancoraggio sicuro di razionalità, che, ad esempio, nello Stato federale tedesco è garantito da quel principio di supremazia dello Stato, secondo cui – ferma restando l’esigenza stringente di rispettare gli equilibri politici con i Lander – tuttavia il Bundestag può legiferare su qualunque materia con diritto di supremazia su ogni altra fonte normativa.
Con queste parole Giuseppe Beato presenta il comunicato della Svimez sui pericoli del regionalismo differenziato. Altrettanto netto era stato il giudizio sulla riforma dell’economista Piero Giarda, allora ministro dei rapporti con il Parlamento del governo Monti:
Un sistema di forte decentramento come quello generato dal nuovo titolo V della Costituzione aveva come conseguenza implicita la creazione di significative differenze nei livelli dei servizi che le singole comunità locali e regionali avrebbero potuto fornire in un regime di piena autonomia finanziaria. Ma il costituente del 2001 non voleva la differenza in materia di sanità, di scuola, di trasporto locale e forse nemmeno in materia di assistenza e costruì un sistema ove, al decentramento dei poteri di spesa, si univa l’uniformità delle prestazioni. Una contraddizione in termini. (in Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino Editore)
Sia detto per inciso: noi siamo profondamente convinti che il pareggio di bilancio non sia una necessità in sé, che al contrario il defict pubblico sia necessario in una economia perfettamente monetaria e che il suo unico limite sia la piena occupazione (a meno che non si preferisca l’indebitamento privato). Tuttavia, il prof. Giarda coglie nel segno quando segnala l’incoerenza, perché come lui, le classi dirigenti del centro-sinistra che in tutta fretta riformarono la Costituzione, erano convinte che fosse necessario abbattere il debito pubblico attraverso sistematici avanzi di bilancio, privatizzazioni, svendite del patrimonio dello stato e politiche austeritarie. Dal nostro punto di vista però neanche il prof. Giarda coglie la vera natura della contraddizione, che non è tra due elementi (decentramento della spesa e uniformità dei trattamenti), bensì tra tre elementi: il principio del pareggio di bilancio, il decentramento della spesa, e i livelli essenziali delle prestazioni. Tutti e tre contemporaneamente non li puoi avere. Uno dei tre deve essere sacrificato. E come vedremo in seguito fu sacrificato il terzo e ancor più lo sarà se passeranno le intese con le tre regioni.
Il federalismo italiano è fissato soprattutto in 4 articoli della Costituzione: il 116, 117, 119 e 120.
Il primo, l’art. 116 determina, le modalità di attribuzione delle materie alle Regioni:
- con legge dello Stato … approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata;
- su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali;
- nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119.
Il secondo, l’art. 117, indica le materie che possono essere trasferite alle regioni:
- i rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
- il commercio con l’estero;
- la tutela e sicurezza del lavoro;
- l’istruzione;
- le professioni;
- la ricerca scientifica e tecnologica e il sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
- la tutela della salute;
- l’alimentazione;
- l’ordinamento sportivo;
- la protezione civile;
- il governo del territorio; i porti e aeroporti civili;
- le grandi reti di trasporto e di navigazione; l’ordinamento della comunicazione;
- la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia;
- la previdenza complementare e integrativa;
- il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
- la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali;
- le casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;
- gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Il terzo, l’art. 119,
- fissa l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa degli enti locali (Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni);
- vincola tale autonomia al rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci e all’osservanza dei vincoli economici e finanziari che derivano all’Italia dall’ordinamento dell’Unione europea;
- prevede la creazione di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante;
- indica le fonti di finanziamento con cui gli enti locali, nello specifico le Regioni, possono finanziare le materie a loro attribuite: tributi, altre entrate, fondo perequativo e compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio;
- prevede la destinazione da parte dello Stato di risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni e interventi speciali sempre dello Stato in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
L’ultimo, l’art. 120 prevede infine che il Governo possa sostituirsi agli enti locali quando lo richiedono la tutela … dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
L’articolo 116 non è mai stato tradotto in una legge che fissasse con chiarezza e precisione la procedura per arrivare al trasferimento delle materie alle Regioni, e così queste ultime hanno preso la scorciatoia di considerarsi alla stregua di confessioni religiose e si sono mosse come tali sulla base dell’ultimo comma dell’articolo 8 della Costituzione: «I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.» E nessuno ha sollevato il ditino per dire che no, in assenza di una legge che attuasse l’articolo 116 non si attribuisce niente a nessuno.
L’articolo 117 rende trasferibili alle regioni materie che, in assenza di un papa, re, regina o imperatore, rendono concreto e sensato un senso di appartenenza a una comunità nazionale: istruzione, sanità, politica estera, sicurezza del lavoro, grandi infrastrutture, ambiente, trasporti, comunicazione.
L’articolo 119 lega in pratica i servizi alla collettività alla capacità fiscale del territorio, sancendo di fatto la divisione dei cittadini italiani. Certo, parla anche di fondo perequativo, di risorse aggiuntive, di interventi speciali, ma, come scopriremo in seguito, tali voci hanno la stessa consistenza dei principi fondamentali della Costituzione, tanto fondamentali quanto disattesi e immolati sull’altare dell’articolo 81, l’unico vero e assoluto principio del pareggio di bilancio a cui ci stiamo da decenni impiccando.
L’articolo 120 è come il ditino ammonitore di un nonno a cui ormai non dà retta più nessuno e che è fortunato se non lo mandano a quel paese in maniera volgare.
Per oggi è tutto. Continuate a seguirci e diffondete l’articolo.