Sul regionalismo differenziato abbiamo espresso tutto il nostro dissenso e preoccupazione con un comunicato di alcuni giorni fa. Con questo post continuiamo il lavoro di collegamento del presente al passato prossimo in cui sono stati posti i semi della mala pianta con cui oggi abbiamo a che fare. Perché le richieste delle tre regioni che già qualcuno chiama «le tre Regioni del Lombardo-Veneto», non spuntano fuori dal nulla improvvisamente, ma hanno una loro storia sotterranea.
Nel 2009, il governo è guidato per la quarta volta da Silvio Berlusconi. Nell’aprile di quell’anno, il Parlamento approva la legge numero 42 con cui delega il governo di scrivere i decreti attuativi entro 24 mesi. La legge comprendeva
- l’autonomia tributaria degli enti locali, la loro compartecipazione al gettito dei tributi spettanti allo stato e la conseguente autonomia di spesa,
- la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) uguali per tutto il territorio nazionale,
- un fondo perequativo statale per gli enti locali alimentato dalla fiscalità generale (fondo che compensasse la diversa capacità contributiva dei territori),
- una ricognizione dei defict infrastrutturali in tutto il territorio nazionale
- e infine la immancabile formuletta: «Dalla presente legge e dai decreti legislativi … non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».
Decentramento della spesa e del finanziamento della stessa attraverso la capacità fiscale di ciascun territorio, perequazione dello stato tra territori con differente capacità contributiva e livelli essenziali delle prestazioni, pareggio di bilancio. Nella legge 42/2009 erano presenti tutti e tre gli elementi del trilemma che abbiamo evidenziato nella prima puntata di questa nostra breve storia. Dei tre, uno andava assolutamente sacrificato, e non vi sarà difficile immaginare quale lo sarà. Ma siccome il nostro è tempo di inganno, manipolazione e dissimulazione, il sacrificio avverrà in silenzio: in quello astuto e autogiustificato e autoassolto dall’intimo sentimento di superiorità (molto teutonico) delle classi dirigenti del nord e in quello ignavo delle piccole e sottomesse classi dirigenti del sud della seconda repubblica.
Nel 2010 arriva il primo decreto attuativo, il numero 216, che «indicava il metodo per calcolare qual è il costo giusto [di un servizio] e qual è il fabbisogno [di quel determinato servizio] municipio per municipio» (Marco Esposito, Zero al sud). L’obiettivo era «il finanziamento integrale della spesa relativa alle funzioni fondamentali e ai livelli essenziali delle prestazioni», ma «il complesso delle maggiori entrate devolute e dei fondi perequativi non può eccedere l’entità dei trasferimenti soppressi», concetto ribadito subito dopo: «dal presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato». Il pareggio di bilancio in azione. Le solite nozze coi fichi secchi a cui da decenni siamo abituati.
Il secondo decreto attuativo, il numero 23, fu emanato nel marzo del 2011. Attribuiva ai Comuni la compartecipazione a una serie di tributi, nello specifico al 30% dell’imposta comunale sugli immobili (Ici) e invece di attuare il Fondo perequativo ne rinviò l’attuazione e istituì un «Fondo sperimentale di riequilibrio», un fondo che, «in pratica, sarebbe stato alimentato dagli stessi Comuni» (Marco Esposito, Zero al sud). Commenta Marco Esposito nel suo libro: «Un fondo che creava matematicamente conflitti tra chi deve dare e chi deve ricevere».
Alla fine del 2011, Berlusconi si dimette spintaneamente e al suo posto Napolitano nomina Monti. Il suo mandato è semplice: riequilibrare la bilancia commerciale dell’Italia nell’unico modo consentito nella zona euro, la deflazione interna e la distruzione del mercato interno attraverso tasse e tagli alla spesa pubblica. In questa atmosfera di tagli, tasse e austerità avveniva il sacrificio di quella parte della 42/2009 che intendeva garantire il fondo perequativo, e quindi la redistribuzione delle risorse, e servizi omogenei in tutto il territorio nazionale mentre proseguiva il percorso di attribuzione dell’autonomia tributaria alle aree più ricche. Naturalmente, tutto senza grandi clamori. Anzi, senza nessun clamore.
Con la finanziaria del 2013, lo stato rinunciava alla sua percentuale sull’imposta municipale unica (Imu) a favore dei comuni ma nel contempo tagliava fortemente i trasferimenti. I sindaci dei comuni ricchi furono molto contenti, gli altri un po’ meno. Il fondo perequativo fu abbandonato definitivamente e al suo posto fu creato il Fondo di solidarietà comunale, alimentato dai municipi stessi delle regioni a statuto ordinario. Commenta Marco Esposito nel suo libro: «La perequazione insomma da verticale (dallo Stato ai Comuni con minore capacità fiscale) divenne orizzontale (dai Comuni con elevato gettito a quelli con gettito inferiore alla media).» Si era aperta l’era della competizione territoriale. La filosofia di Mastricht applicata ai comuni.
E fu così che i comuni ricchi cominciarono a organizzarsi per fare in modo che la solidarietà si riducesse al minimo. E in assenza di un criterio stabilito per legge, i Lep, l’unica regola che rimase in piedi fu la vecchia legge del più forte. Quest’ultima prese la forma del criterio della spesa storica: «in assenza di una indicazione ufficiale sul livello ottimale dei servizi da offrire …, a ciascun comune [fu assegnato] il livello storico» (Marco Esposito, Zero al sud), per cui, per esempio, nel comune dove erano presenti 10 asili, il fabbisogno di asili fu stimato 10, mentre nel comune dello stesso livello in cui gli asili erano 0, il fabbisogno di asili fu stimato 0.
E anche per questo post è tutto. Continuate a seguirci e diffondete.