Ci abbiamo creduto. Abbiamo sperato.

contesalvinidimaio

di Patriottismo Costituzionale

Lo ammettiamo candidamente: ci abbiamo creduto e ci abbiamo sperato. Non tanto guardando ai rappresentanti, quanto con lo sguardo felice e un po’ sorpreso sui rappresentati. Il 4 marzo del 2018 la maggioranza degli Italiani ha decretato forte e chiaro di voler farla finita con tagli, austerità, precarizzazione, disoccupazione, globalizzazione, accoglismo a tutti i costi, subordinazione passiva al dominio della Ue, cosmopolitismo, fastidiosissimi indici accusatori eternamente sollevati, liberismo, governo dei mercati, e quant’altro. Una voce informe di ribellione si è sollevata e si è incanalata su quelle due forze politiche che, a torto o a ragione, sono state percepite come le più critiche nei confronti del sistema eurocratico: il Movimento 5 Stelle e la Lega.

Ciò che per noi contava di più era la fase che si era aperta, una fase di ribellione popolare, confusa e magari insufficientemente consapevole della posta in gioco e della natura del gioco stesso, ma comunque di ribellione. Chi non ha visto la novità e non ne ha valutato l’importanza, vive in un buio perenne in cui tutte le vacche sono sempre e solo nere.

Il significato dell’esperienza giallo-verde: “Fu vera gloria?”

Tante cose non sappiamo e chissà se mai sapremo sulla breve parabola del governo giallo-verde. Una cosa però certamente la sappiamo: improvvisamente, gli Italiani, con il loro voto, hanno trasformato l’Italia in un campo di battaglia internazionale dei due schieramenti che si combattono senza esclusione di colpi per il potere nell’Impero d’Occidente: il capitalismo globalista della grande finanza e delle multinazionali e il capitalismo che definiremo “nazionale”. Improvvisamente, nei giorni convulsi post-elezioni, l’Italia ha visto il passaggio dei due più fieri paladini dei due schieramenti: George Soros e Steve Bannon. Non sappiamo quale sia stato il ruolo di quest’ultimo nell’avvio dell’esperienza della collaborazione di governo tra M5S e Lega, ma è difficile non pensare a un ruolo di suggeritore, incoraggiamento, in alcuni casi di forte pressione.

Queste cose le abbiamo viste. Non ci siamo illusi che improvvisamente e magicamente l’Italia, la sua classe dirigente e la sua classe politica si fossero liberati da decenni di oggettiva subalternità. Ma giudicavamo il pericolo che proveniva dalla Ue e dai nostri “alleati” francesi e tedeschi ben più letale, in una prospettiva di medio e lungo periodo il cui obiettivo è il recupero della sovranità. E quindi l’appoggio dell’amministrazione Trump era il benvenuto. Senza, la sfida non poteva neanche essere pensata.

In questo contesto ed entro questi limiti, abbiamo giudicato positiva e per certi versi coraggiosa la scelta di dar vita all’esperienza di una alleanza contraddittoria e forse raffazzonata, la cui unica ragion d’essere era però lanciare la sfida alla Ue e voltare pagina rispetto a un trentennio di politiche di austerità, precarizzazione del lavoro, disoccupazione, tagli e riduzione progressiva dello stato sociale. Tutto questo c’è stato e ha in alcuni casi preso forma di legge. Vecchie parole sono state nuovamente dette: nazionalizzazione, dignità del lavoro, sicurezza sociale, sovranità, spesa in defict: bestemmie per i liberisti sia di destra che di sinistra.

Ma col senno del poi è lecito chiedersi: quale è stato il senso di tutto questo?

“Fu vera gloria?”

I limiti ab origine: da dove è spuntato fuori Conte?

Il vero cavallo di Troia non è stato Tria, ma lo stesso Conte. Le domande cruciali a questo proposito sono: chi è Conte? Da dove è spuntato fuori? Chi lo ha suggerito a Di Maio? E Di Maio era consapevole di quale fosse il ruolo, la funzione e l’obiettivo di Conte e dei suoi mandanti?

Il che chiama alla luce però un’altra domanda, ancora più cruciale: che cosa accidenti è il Movimento 5 Stelle?

Un breve intermezzo sul concetto di “sovranità”.

Quando parliamo di recupero di sovranità popolare pensiamo al recupero del sufficiente controllo da parte dei rappresentanti del popolo di una serie di leve e ingranaggi che consentano di governare la nave verso la direzione prefissata operando le necessarie correzione a seconda delle contingenze. Secondo questa definizione, la nave non può non esserci (altrimenti saremmo tutti annegati), rimanendo aperta la questione su chi controlla le leve e quindi su chi decide la rotta: se reali rappresentanti della sovranità popolare o di qualche interesse particolare travestito da popolo. Se questa definizione ha senso, probabilmente dovremmo riconsiderare l’idea che l’Italia abbia perso la sua sovranità. Forse sarebbe meglio dire che le forze che in Italia hanno il controllo di quelle leve e ingranaggi la stanno governando verso una alleanza stretta con la Germania e la Francia e la sopravvivenza dell’Unione europea. Questa è la loro stella polare, la loro priorità. Evidentemente, dal loro punto di vista, i ritorni che traggono da questa alleanza strategica superano di gran lunga gli svantaggi. Quindi non sarebbe vero che l’Italia ha perso, ceduto, svenduto la sovranità. Il suo ceto dirigente, il suo stato profondo, quello che è tornato al governo con l’alleanza giallo-fucsia, ha da decenni fatto una scelta strategica che sta perseguendo con coerenza e a dispetto di tutto e di tutti, anche di una ribellione popolare: l’Unione europea.

(Ci sarebbe tanto da dire, a questo proposito, sulle forti analogie tra il momento che stiamo vivendo e la prima metà del 1500 in cui l’Italia diventa la posta della lotta tra le maggiori potenze europee, soprattutto per il ruolo che in quegli avvenimenti ebbe il grande capitale finanziario e cosmopolita italiano. Ma questo è un documento politico, non un trattatello storico.)

Avversari esterni, debolezze interne, giochi doppi, velleità: cosa ha contato di più?

Nell’attuale condizione di sconfitta della sovranità popolare conta di più la forza dell’avversario esterno o le debolezze interne? Una risposta a questa domanda non può prescindere dalla considerazione che la forza di incidere e influire dell’avversario esterno è indirettamente proporzionale alla forza e compattezza interna dei rappresentanti di tale sovranità popolare. Un esercizio di analisi quindi, se deve sempre e comunque avere un quadro minimamente completo e chiaro dell’avversario esterno, dovrà dedicarsi soprattutto alle condizioni interne che spiegano lo stato pietoso a cui è giunta nel nostro paese la sovranità popolare. A questa questione sono dedicate le righe che seguono.

Se consideriamo freddamente e oggettivamente i fatti per quelli che sono stati, liberando il campo da tutte le cortine fumogene, specchietti per le allodole e mani sinistre agitate per distrarre dalle mani destre che nel mentre fanno, il M5S ha operato come un gatekeeper: dalla richiesta di impeachement del Presidente della Repubblica all’alleanza con il PD. Dallo scontro aperto con la Commissione europea al voto per la von del Leyen. In fondo, è stato un ritorno a casa: ricordate il rifiuto della Alde alla richiesta di ingresso nel loro raggruppamento del Parlamento europeo da parte dei 5S circa due anni fa?

Certo, nel mezzo c’è stato il periodo battagliero del “decreto dignità”, del “reddito di cittadinanza”, dell’attacco aperto al capitalismo parassitario della rendita rappresentato dalla famiglia Benetton, e al neocolonialismo francese in Africa. Tutte cose che, sì, ci avevano fatto sperare nella possibilità che il Movimento potesse nel pratico esercizio del governo prendere la forma di una forza politica che desse voce, sostanza e concretezza a una politica nazionale e popolare. E magari qualcuno al suo vertice, all’inizio, ha anche cominciato ad accarezzare un progetto simile. Ma passati i furori della lotta contro la Commissione europea e dell’approvazione del reddito di cittadinanza, il giorno per giorno ha messo in luce tutti i limiti e le debolezze del M5S: l’inadeguata gestione della sfida interna con la Lega; l’assenza, voluta e sbandierata come un vessillo, di una organizzazione democratica interna radicata nel territorio; la conseguente assenza di una strategia di medio e lungo periodo che solo una forte e chiara identità frutto di lunga, continua e aperta discussione può fornire; la doppiezza di fondo tra l’ala sinistra umana e buona rappresentata da Fico e la fin troppo timida e contraddittoria difesa della politica di rigido controllo dell’immigrazione clandestina da parte di Di Maio.

Su questo quadro sono calate con spietata inesorabilità le elezioni europee, il dimezzamento elettorale del Movimento e il parallelo raddoppio dell’alleato-avversario. E allora, fallito il “progetto” di Di Maio di guidare in prima persona la fase aperta dalle elezioni del 4 marzo, il pallino è tornato saldamente in mano al partito europeo guidato da Mattarella attraverso Conte, la cellula dormiente opportunamente sistemata alla guida del governo sin dall’inizio della sua esperienza.

La nostra lettura quindi è questa: il M5S non è un partito e non lo sarà mai (e per partito intendiamo una organizzazione politica che seleziona e allena classe dirigente minimamente degna di questo nome). È uno strumento di manipolazione di massa guidato in termini manageriali e usato da menti raffinatissime, da esperti della comunicazione di massa, con lo scopo di intercettare e sterilizzare i sentimenti di scontento, rabbia, frustrazione, e i fenomeni di vera e propria patologia mentale che inesorabilmente la politica neoliberista di governo dei mercati autoregolati comporta per le società in cui si afferma. Nonostante i timidi vagiti sulla nazionalizzazione delle autostrade e dell’Alitalia, il M5S è un partito liberista. Nonostante abbia preso valangate di voti al Sud, il M5S lavora per il regionalismo differenziato. Sull’Ue il M5S è stato sempre ambiguo, non esprimendosi mai chiaramente sulla questione e rimandandola a un impossibile, perché anticostituzionale, referendum sull’adesione o meno nell’Unione europea. Nonostante tutta la sua retorica sull’Italianità, chi guida realmente il Movimento disprezza gli Italiani. Grillo per primo.

Diverso è il discorso da fare sulla Lega. La Lega di Salvini si è fatta apertamente strumento del capitalismo “nazionale” guidato da Trump nella sua lotta all’ultimo sangue per il controllo dell’impero d’Occidente. Tutta l’enfasi sulla sovranità nazionale, sulla difesa dei confini dagli ingressi irregolari viene da qui. Peccato che la Lega più che espressione del capitalismo “nazionale” italiano (che da tempo ha operato la scelta strategica di integrarsi in un ruolo gerarchicamente subordinato con il capitalismo europeo) sia espressione di un capitalismo che potremmo definire “regionale”, di quel mondo della media e piccola impresa del Nord che dipende dalla spesa dello stato, dagli appalti, dalle opere pubbliche, colpito quindi anche lui dalla politica di austerità e dai tagli in bilancio per operare ogni anno gli avanzi primari. Ed è inoltre espressione del piccolo e medio capitale “lombardo-veneto”, inestricabilmente legato in un ruolo gerarchicamente dipendente all’industria tedesca. L’equilibrismo di Salvini si è dovuto esercitare su questi tre fronti: una politica di chiusura delle frontiere ai flussi immigratori e di voce grossa soprattutto con la Francia (non con la Germania) per soddisfare le istanze sovraniste; l’appoggio alla TAV per soddisfare il capitalismo “regionale”; la riforma del regionalismo differenziato per soddisfare il capitalismo “lombardo-veneto”.

Se il quadro, necessariamente sommario e lacunoso, da noi tracciato ha senso, reddito di cittadinanza e quota cento, i due provvedimenti bandiera dei giallo-verdi, col senno di poi, assumono la dimensione ridimensionata di misere polpette da lanciare al popolo affamato piuttosto che di grimaldelli da usare per scardinare dalle fondamenta le politiche europee incardinate sul dovere costituzionale del pareggio di bilancio. Perché la verità vera è che entrambi i due partiti non hanno mai avuto ricette complessive e coerenti da contrapporre al liberismo dell’Unione europea, se non un semplice allentamento delle regole di bilancio, che in questi tempi grami sarebbe stato già molto, per carità, ma che non ha distinto il “governo del cambiamento” dai precedenti governi a guida europeisti se non nei toni e nei modi.

Un esempio per tutti in questo senso è la riforma costituzionale del regionalismo differenziato: cos’altro è il regionalismo differenziato se non l’applicazione a livello nazionale della competizione economica tra economie nazionali che vige a livello europeo, col mercato come unico giudice e guida? Perché una tale impostazione dovrebbe dare a livello nazionale risultati differenti da quelli che sta dando a livello europeo?

Le prospettive: un conflitto strisciante interno alle forze europeiste.

Il governo nasce nel segno di un arretramento del M5S e un ritorno in forze del partito democratico. Quest’ultimo, con la metà dei parlamentari porta a casa la metà dei ministeri più la nomina a commissario europeo di Gentiloni. Si assicura tutti i ministeri che hanno un qualche raccordo diretto con la Ue, si assicura i ministeri che amministrano direttamente o indirettamente le politiche per il Meridione, si assicura le infrastrutture e ministeri pesanti come l’agricoltura e la sanità (vabbé, per la sanità speriamo nel LeU, ma, insomma, siamo lì), e indirettamente si assicura la gestione delle politiche immigratorie.

Magari c’è una strategia in tutto questo, oppure è il naturale frutto dell’indebolimento complessivo del Movimento, uscito con le ossa rotte dall’esperienza del governo giallo-verde. Magari c’è il progetto di poter addossare in futuro al PD la responsabilità delle scelte politiche più importanti e impopolari che nell’immediato futuro questo governo si troverà a dover compiere, a partire dalla prossima manovra economica. E magari, d’altro canto, il PD spera di poter utilizzare la crisi della Germania e del conseguente modello economico da lei imposto all’Europa, per strappare un allentamento delle regole del Patto di Stabilità. Magari c’è tutto questo. Ma, se nella nostra analisi c’è un fondo di verità, a noi che ci cambia? Sì, magari potremmo avere un po’ di momentaneo respiro in più, e questo è sempre un bene, ma nel medio e lungo periodo, cosa cambia se il presunto progetto degli strateghi del M5S ha successo? Se abbiamo ragione noi, la sostanza delle politiche liberiste in un saldo orizzonte europeo cambierebbero di gestore ma non di contenuto.

Eppure la rivolta popolare del 4 marzo 2018 non ce la siamo sognata.

Se l’esperienza del governo giallo-verde è fallita per l’abilità, l’unità di intenti, la chiarezza di visione e i mezzi a disposizione delle forze europeiste interne, ma soprattutto per le intime contraddizioni interne ai due alleati e per il prevalere dei motivi di competizione su quelli di collaborazione, è vero però che la rivolta popolare contro le politiche imposte dall’Unione europea c’è stata. Non sappiamo se questa rivolta rifluirà o coverà sotto la cenere e aspetterà la prossima occasione per manifestarsi. Ma non è possibile negare che soprattutto nella fase iniziale dell’esperienza di governo sia il M5S che la Lega si sono posti consapevolmente alla guida di tale rivolta. È stata soprattutto questa fase a far praticare, maturare e sedimentare in ampie fasce dei due partiti una consapevole e sincera sensibilità nei confronti della crucialità di questioni come la sovranità popolare, l’interesse nazionale, il suo recupero e la sua difesa al fine di una reale e possibile attuazione di politiche finalizzate al benessere popolare. Sia il Movimento 5 Stelle che la Lega non sono dei monoliti. Il nostro auspicio è che la necessità imposta dal rispettivo “serrate le fila” di questa fase, non soffochi le forze che hanno praticato con maggiore consapevolezza e convinzione la via del recupero della sovranità popolare, e inoltre che tali forze crescano in numero, forza e preparazione e possano riprendere le fila del discorso aperto nella primavera dell’anno scorso, liberi questa volta della zavorra dei regionalisti differenziati, degli umani e buoni, dei liberisti di ogni risma, degli amici delle banche e degli appaltatori.

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