di Patriottismo Costituzionale
Non lasciare mai che una crisi vada sprecata.
Questa è la semplice regola tattica seguita con ottusa efficacia dal neocapitalismo liberale occidentale dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi. Nella sua logica ideologica totalitaria, il neoliberismo globalistico e cosmopolita vede nelle crisi il manifestarsi non delle intime contraddizioni del suo operare e delle sue ricette, bensì il risultato degli ostacoli e dei freni (i famosi “lacci e laccioli”) frapposti dalle varie resistenze al suo pieno operare e dispiegarsi, sia che provengano dai suoi fratelli liberisti attardati in una dimensione semplicemente nazionale delle forze economiche, sia che provengano dalle ultime sacche di resistenza che si richiamano all’esperienza del capitalismo keynesiano, che vede nell’azione coordinata degli stati uno strumento essenziale per assicurare il benessere delle nazioni e scongiurare il conflitto rovinoso tra stati per l’accaparramento di risorse ritenute anacronisticamente scarse.
La crisi determinata dalla pandemia da covid-19 è l’ennesima conferma di questa regola tattica. Dopo un primo sbandamento, le forze economiche e politiche neoliberiste si sono subito riorganizzate allo scopo di non lasciarsi sfuggire questa occasione. La capillarità dell’offensiva si fonda non su un’organizzazione apertamente gerarchica, ad albero, bensì, nel classico modo di organizzarsi della produzione nel neocapitalismo, su un’organizzazione a rete, una fitta rete di nodi apparentemente liberi, autodeterminati e spontanei che nasconde come un velo la sua vera natura gerarchica basata sul controllo delle risorse e delle parole, e quindi delle menti, da parte di pochi supernodi.
Uno di questi innumerevoli nodi fintamente liberi, autodeterminati e spontanei è l’ANP, la vecchia Associazione Nazionale Presidi ora ridenominata pomposamente e prolissamente associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola. Anche per loro l’emergenza determinata dal covid-19 è una crisi da non sprecare per abbattere le resistenze all’attuazione della loro agenda: potenziare il ruolo del dirigente e cancellare le residue prerogative del Collegio dei Docenti nella politica didattica degli istituti. In un loro recente documento, l’ANP afferma chiaramente ed esplicitamente che è necessario valorizzare
il ruolo dei Dirigenti scolastici in materia di scelte organizzative e gestionali, sull’esempio di quanto avvenuto nella fase emergenziale, quando hanno dovuto rapidamente decidere quali fossero i servizi indifferibili da svolgere in presenza e come organizzare gli orari di apertura delle segreterie scolastiche, per non parlare dell’attivazione della stessa DAD (didattica a distanza, ndr).
Ed è proprio su quest’ultima che il documento si sofferma. Senza un’indagine, senza aver minimamente interpellato chi la DAD l’ha provata a fare, senza neanche aspettare che il polverone sollevato dalla frenesia del ministero dell’istruzione e del governo, tutto teso a preoccupare (“tutti chiusi in casa”) e tranquillizzare (“andrà tutto bene”) nello stesso tempo, l’ANP ha deciso che la DAD è stata un successo e che gli strumenti digitali utilizzati durante l’emergenza sono la nuova frontiera, il santo gral tanto cercato, la formula tanto attesa che aprirà finalmente le porte al mondo nuovo in cui la scuola saprà
dare risposte concrete ai bisogni formativi di alunni e studenti.
E quindi, dopo la tassonomia di Bloom, dopo la didattica breve (chi ha cominciato a insegnare dagli anni Ottanta in poi sa di cosa stiamo parlando), dopo l’autonomia e dopo altre innumerevoli formule magiche e riforme e ritocchi minimi, piccoli e grandi, ecco il grimaldello giusto che saprà forzare la resistenza passiva e sorda del corpaccione docente, che, sebbene disorientato dal continuo turbinio di nuovi indirizzi, strategie, relazioni, certificazioni, progettazioni, ecc. si frappone tra i sogni dei ministri e dei dirigenti e la loro trasformazione in realtà.
E di cosa sono fatti questi sogni?
I ministri e i dirigenti sognano una scuola come insieme di tante aziende che autonomamente perseguano tutte lo stesso obiettivo: essere le più produttive possibile; scuole-aziende che competano sul campo della produttività sottraendo quanto più possibile studenti alle altre scuole meno competitive. E come per qualsiasi azienda, anche per le scuole aumentare la produttività significa immettere nel processo produttivo sempre più tecnologia, tecnologia digitale.
I ministri e i dirigenti sognano una scuola che produca formazione e competenze, che produca capitale umano, merce subito spendibile nel processo produttivo.
I ministri e i dirigenti sognano una scuola che sia al servizio del territorio, che «“faccia rete” con tutti i portatori di interesse», che fornisca al suo territorio capitale umano sempre più formato per consentirgli di competere con successo con tutti gli altri territori nell’agone nazionale e internazionale.
Ora, in questi loro sogni, i ministri e i dirigenti hanno trovato altri due compagni di sogni e di visioni, le grandi multinazionali informatiche e del digitale e le grandi compagnie di servizi telefonici.
Tutti insieme, ministri, dirigenti, multinazionali del digitale e compagnie telefoniche sognano una scuola in cui i dispositivi digitali si interpongano sempre più tra insegnanti e alunni e studenti. In cui l’insegnante, esperto utilizzatore di tali dispositivi, sia un promotore, facilitatore, un agevolatore della formazione e dell’apprendimento delle competenze da parte dello studente. In cui insegnanti, studenti e genitori siano sempre connessi, perché la grande e rivoluzionaria innovazione che porterà gli studenti all’acquisizione delle tanto agognate competenze consiste nella «disponibilità in qualsiasi momento, di materiali, esercitazioni, indicazioni sulle attività didattiche» che permettano al «discente un’autonomia e personale gestione del suo apprendimento». In cui quindi sia sempre più chiaro a tutti che la responsabilità del successo o del fallimento in questo apprendimento e nella accumulazione del proprio capitale umano da mettere in vendita nel mercato del lavoro è solo e semplicemente individuale (e quindi a nessuno venga in mente di cercare altre spiegazioni al proprio destino da disoccupato-precario senza un futuro se non nella sfera individuale). In cui i dirigenti agiscano «come veri leader dell’innovazione», guidando la ricerca e l’attuazione di «scelte didattiche maggiormente in linea con i più avanzati approcci pedagogici e docimologici» (laddove “più avanzato”, neanche a dirlo, significa “che prevede l’applicazione degli strumenti digitali nella didattica”) che consentano di rivoluzionare finalmente la pratica didattica attuale per rendere più produttiva la scuola.
Ciò che ministri e dirigenti non sembrano sapere, è che le multinazionali del digitale sognano più in grande di loro, hanno visioni del futuro, e che questo sogno con loro condiviso è solo una piccola parte di questo grande sogno e grande visione: un mondo in cui l’intelligenza artificiale ha sostituito completamente gli insegnanti, ma anche i ministri e i dirigenti.
Ma per ora, è vero, i loro sogni sono molto più terra terra: aprire e innescare un nuovo mercato che possa sostituire quello ormai saturo di telefoni intelligenti, tavolette digitali, gigabyte di traffico. Ma, si sa, da cosa nasce cosa.
Ora, tutti questi sogni e visioni si basano su alcuni assiomi indiscussi e indiscutibili:
- obiettivo di un sistema scolastico è il solo apprendimento di abilità e competenze cognitive (la formazione) che andranno a formare il capitale umano del singolo e del territorio;
- l’apprendimento di un essere umano è il risultato di un processo produttivo come tutti gli altri;
- tale processo produttivo è il semplice risultato dell’interazione tra l’impegno del singolo discente e la qualità della tecnologia didattica che ha a disposizione;
- la produttività di tale processo produttivo, come per qualsiasi altro processo produttivo, è aumentata attraverso l’iniezione di nuova tecnologia;
- come in qualsiasi processo produttivo la competizione tra le singole scuole costringe le singole unità produttive (le scuole, appunto) a innovare in continuazione i propri processi e la tecnologia applicata in essa, e quindi la propria produttività.
Sono ormai trent’anni che lentamente, con sapiente pazienza, queste idee sono utilizzate senza la minima possibilità di metterle in discussione. Neanche a dirlo, anche in questo caso, ultimamente l’incantamento più usato per ottenerne il successo totale è stata la formula “ce lo chiede l’Europa”. Ma se ci permettiamo il lusso di soffermarci a ragionare su ciascuno dei cinque assiomi, nessuno sembra reggere l’esame.
L’obiettivo del lavoro di ogni singolo docente o gruppo di docenti non può logicamente essere se non l’acquisizione da parte dello studente delle uniche competenze che realmente esercita in una classe: competenze relazionali, emotive, motivazionali, nella gestione dell’attenzione e concentrazione, cognitive di vario genere. Queste sono le uniche competenze che si basano su prove di realtà, sulla realtà della vita scolastica. Tutte le altre, comprese quelle che la didattica per competenze di derivazione europea basa su ipotetiche prove di realtà, sono semplici simulazioni di realtà. Come un bambino che si butta per la prima volta in acqua non può acquisire altro che competenze che gli consentono di stare a galla e poi spostarsi nuotando, un bambino che si immerge nella scuola non può acquisire altro che quelle competenze che gli consentono di trarre profitto e avere successo nella reale esperienza scolastica.
L’apprendimento di tali competenze è un processo produttivo sui generis. Si basa sulle relazioni umane e sulla continua interazione tra pari e con gli adulti. Non si può imparare a relazionarsi con gli altri se non relazionandosi con gli altri. Anche le competenze più specifiche e professionalizzanti non possono prescindere da tale cornice. A scuola si impara a tessere relazioni produttive su vari fronti. La scuola non può essere un’azienda, perché non “produce” bulloni. La scuola produce, dovrebbe puntare con sempre maggiore consapevolezza e competenza a “produrre” persone equilibrate, responsabili ed empatiche. Persone che poi entreranno nel mondo del lavoro, si spera, e lì e solamente lì svilupperanno competenze specifiche al settore lavorativo dove le loro inclinazioni, abilità e la fortuna li avranno inseriti. La formazione al lavoro si svolge con profitto solo sul luogo di lavoro, e deve essere fornita dall’azienda, non dalla scuola attraverso un surrogato di realtà.
L’apprendimento delle uniche e sole competenze che una scuola può con coerenza fornire non sono solamente il risultato dell’impegno del singolo: sono il frutto di una relazione che si svolge all’interno di un sistema strutturato di relazioni, sia interne alla scuola, ma anche, e ormai soprattutto, esterne alla scuola. Ormai la scuola ha perso da tempo lo scettro della agenzia educativa principale dei cittadini di uno stato, la chiesa è in stato comatoso e la famiglia non sta certo meglio. Nei paesi occidentali, i mezzi di comunicazione di massa, sia tradizionali che digitali, hanno ormai assunto il ruolo di centro formatore principale del cittadino-consumatore modello. E diciamocelo, non è un bel vedere. Il progetto di trasformare la scuola in una azienda sempre più produttiva di capitale umano è coerente con questa trasformazione. In questo sta la sua sorda forza. Perché è economicamente logico: se il momento educativo è demandato ai social, ai mezzi di comunicazione di massa, agli spot pubblicitari, ai telefilm e ai cartoni animati, alla rete di pari interconnessi tra loro attraverso le chat, alla scuola non rimane altro che specializzarsi nella formazione e darsi un tono da professionisti dei più avanzati mezzi tecnologico-didattici. Specializzandosi in tale compito, la scuola diventerà automaticamente più produttiva. Semplice, no?
Considerare ogni singola scuola come una azienda specializzata nella formazione, metterle in competizione tra loro, ha lo scopo, nella mentalità economica liberista, di spingere ciascuna scuola-azienda a una continua innovazione e all’immissione nel processo produttivo di sempre più tecnologia. Nella visione di tale mentalità tale processo porterà al miglioramento complessivo del sistema. Questa visione, tutta concentrata al perfezionamento del micro, mostra una totale incapacità di avere una visione del livello macro, del sistema di istruzione nel suo complesso. La competizione ha per definizione dei vincitori e dei vinti. Li prevede. Ma state tranquilli: ha anche una sua spiegazione che consentirà a ministri, dirigenti, multinazionali e compagnie telefoniche di proseguire i loro sonni e i loro sogni. I vinti non si sono impegnati abbastanza nel sentiero della innovazione e specializzazione. Basta quindi metterci più impegno. Così tra qualche anno, i vinti e vincitori di oggi avranno cambiato la loro posizione relativa. E ci ritroveremo di nuovo con vinti e vincitori.
Cosa resta da fare ai maestri e agli insegnanti?
Prima di tutto prendere coscienza di questo processo che li vede protagonisti passivi, materia vischiosa da mutare di forma.
In secondo luogo decidere: rinunciare definitivamente al loro ruolo di educatori, diventare professionisti della didattica e della formazione, trasferire agli specialisti della gestione delle emozioni tutto ciò che non riguarda il loro specifico (a proposito, a quando l’introduzione nelle scuole delle pastiglie per regolare l’umore degli alunni-studenti?) oppure aprire gli occhi sulla spesso faticosa realtà che entrare in una relazione con bambini e adolescenti significa di fatto entrare in una relazione educativa (anche quando chi hai di fronte non ti riconosce tale ruolo).
In terzo luogo (per quelli che pensano che alla società servano maestri e insegnanti e non semplici professionisti della formazione) organizzarsi, intessere relazioni orizzontali, studiare, praticare forme di resistenza. Saremo parte di una lotta impari che è solo agli inizi, di cui ancora molto spesso non ci si è nemmeno accorti, che si svolge dappertutto, perché dappertutto ci sono uomini che aspirano a rimanere tali.
Ottima e puntuale analisi; serve appunto che si risveglino le coscienze, specie di chi a scuola lavora, come tu giustamente esorti a fare, speriamo che accada presto perché loro si sono già riorganizzati mentre noi stiamo ancora cercando di capire.
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L’ha ripubblicato su L. R. CAPUANAe ha commentato:
Sandro Arcais vede lungo, ben oltre i nostri limitati orizzonti e confini, questa lucida e puntuale analisi di come i grandi gruppi si stanno già riorganizzando per sfruttare tutta a loro vantaggio la crisi sanitaria deve farci agire di conseguenza e consapevolmente. L’autore del post originale, Sandro Arcais, non è l’unico che osservando la realtà si accorge di quanto sta accadendo nei settori pubblici strategici dei paesi sviluppati, sanità e istruzione, è in ottima compagnia come dimostra la trascrizione di questa intervista a Naomi Klein.
https://www.democracynow.org/2020/5/13/naomi_klein_coronavirus_tech_privacy_surveillance?fbclid=IwAR2-C-kM-QEDCjmerizhkpMkYCwBmM14KTOQwv3RS464furuSa5KY5bYDQc
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