Il neocolonialismo francese e noi

 

di Sandro Arcais

Esistono due unioni monetarie nel mondo: una è quella mirabile istituzione che conosciamo tutti e che ci ha assicurato settant’anni di pace, l’impoverimento della periferia europea e il massacro della Grecia, l’altra è la zona del Franco CFA (l’acronimo un tempo significava “… delle Colonie Francesi d’Africa“, oggi significa “… della Comunità Finanziaria Africana“: neanche la decenza di cambiare acronimo hanno avuto).

Entrambe prevedono una banca centrale svincolata dagli stati appartenenti alla comunità (in verità, essendo due le Comunità economiche africane che utilizzano il Franco CFA, due sono le banche centrali), una commissione, una corte di giustizia, e così via.

Entrambe prevedono la convergenza delle differenti economie sulla base di una serie di numerini. Per le due unità monetarie africane i numerini sono i seguenti:

3 (il defict di uno stato rispetto al PIL non deve superare il 3%),

70 (il debito pubblico non deve superare il 70% del PIL),

3 (l’inflazione non deve superare il 3%).

Fin qui niente di molto diverso dai numerini che regolano l’eurozona (benché il fiscal compact abbia introdotto regole più stringenti sulla base della nozione di “defict strutturale“. Sarebbe troppo lungo affrontare la questione in questo post, ma sappiate che i rilievi della Commissione all’Italia si basano su tale defict strutturale e non sul vecchio 3%). Gli altri due numerini sono invece una specifica delle due unione monetarie africane. Eccoli:

20 (le entrate fiscali non devono superare il 20% del PIL),

35 (il monte salari non deve superare il 35% delle entrate fiscali).

Il che significa che se il PIL è 100, le tasse non potrenno superare 20 e i salari distribuiti ai lavoratori non potranno superare 7 (20:100=0,2×37=7).

Riuscite a farvi un’idea dell’economia e della società dominata da questi numeri? Una società condannata a disuguaglianze abissali e da povertà, precarietà e sfruttamento infernali. Una economia tutta orientata all’esportazione e all’accumulazione da parte di chi controlla tale esportazione (ed è chiaro che le esportazioni sono controllate da multinazionali occidentali, soprattutto francesi).

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Le due unioni monetarie ed economiche africane sono nate nei primi anni Novanta del secolo scorso per iniziativa francese. Le élite francesi hanno fatto un ragionamento più o meno di questo tipo:

Abbiamo bisogno delle risorse delle nostre ex colonie e abbiamo bisogno di averne il controllo. Abbiamo anche bisogno che le economie di queste colonie non decollino, non crescano, altrimenti ne perderemmo il controllo assoluto. Abbiamo quindi bisogno di imporre dei limiti strutturali a tale crescita con alcune regole di bilancio che impediscano alle nostre ex-colonie anche la pur minima spesa espansiva e costringano le loro economie a contare solo sulle esportazioni.

Ed ecco che il vecchio colonialismo si toglie la divisa, veste il doppiopetto degli uomini d’affari e dei burocrati della finanza e diventa neolonialismo economico-finanziario.

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Ora, se mettiamo alcuni elementi in veloce successione:

  • sia le due unioni economiche monetarie africane che il Trattato di Mastricht nascono nei primi anni Novanta;
  • in entrambi i percorsi la Francia ha un ruolo di primo piano (Jacques Delors è a capo della commissione europea negli anni strategici 1985-1995);
  • entrambe le unioni monetarie ed economiche sono regolate da numeri praticamente identici;
  • entrambe le unioni economiche sono votate al pareggio di bilancio, all’austerità, alla compressione dei salari e all’esportazione;

la conclusione che si può trarre è la seguente: se le due unioni economiche e monetarie africane sono lo strumento con cui la Francia perpetua in altre forme il suo dominio coloniale sulle sue ex colonie, allora l’unione economica europea è lo strumento con cui l’asse carolingio sta costruendo il suo dominio coloniale sui paesi della periferia europea. La Grecia è stata il primo episodio in cui il disegno è venuto esplicitamente alla luce. L’Italia è il secondo episodio.

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